Storia delle Arti Marziali
Origini
In qualità di animale evoluto, l’uomo ha sempre combattuto. Ma affinché la differenza tra il mero combattere e l’arte del combattimento si potesse fare più marcata, bisognerà attendere la fondazione del monastero Shaolin in Cina, nel 495 d.c.
E’importante distinguere tra sport da combattimento e arti marziali, in quanto oggi questa distinzione è purtroppo sottovalutata e molti stili di arti marziali ci vengono troppo spesso venduti come sport da combattimento travestiti da arti.
Combattere è sempre stata una necessità per l’uomo, e se vogliamo considerare questo gesto concepito per garantire la propria sopravvivenza, allora è meglio soffermarci su sport come “boxe, kick boxing, capoeira, muhay thai, jiu jitsu, valetudo, savate e molte altre”. Ma cosa distingue l’arte di combattere dal combattere? Nessuno sottovaluta l’efficacia degli sport da combattimento, ma l’unione di elementi quali il rispetto per l’altro, la calma interiore, la soppressione della propria impulsività e l’analisi della situazione di fronte al pericolo, uniti alla precisione tecnica del gesto e alla fluidità dei movimenti, creano l’arte del combattere. Concetti che oggi appartengono ad una società non più primitiva, poiché non è più necessario sopravvivere ma vivere quotidianamente comportandosi con rispetto e analisi. …e se proprio siamo costretti a ricorrere alle mani, solo allora applicheremo il concetto di sopravvivenza.
E’assurdo, in una società moderna come la nostra, affidare ad un atleta la capacità di difendersi e di uccidere, se non se ne controlla in primis l’impulsività e la brama di dimostrare di essere superiore all’altro, cosa purtroppo insita nell’uomo in qualità di animale (sotto questo punto di vista la tradizione Buddista e Taoista aiutano molto a trascendere dall’uomo inteso come animale e diventare qualcosa di meglio). Oggi purtroppo l’ostentare i propri traguardi e vittorie marziali sta riportando l’uomo al livello di animale che era in origine: conta solo dimostrare che con un colpo si fa questo e quest’altro. Ma come dice il famoso libro cinese “l’arte della guerra”, puoi ottenere cento vittore su cento battaglie che affronterai, ma l’arte di combattere senza combattere è la suprema arte di combattimento.
Nascita e sviluppo delle Arti Marziali
Sul finire del 500 d.c. l’imperatore cinese Xiaowen fece edificare un tempio sulle pendici del monte Shaoshi nel sud della Cina, come dimora per il monaco buddista indiano Buddhabhadra: il suo compito, in qualità di monaco, era limitato a tradurre le scritture buddiste per l’imperatore e predicare il culto omonimo (ecco perché oggi si accosta la Cina al buddismo, quando in realtà è l’India la culla di questo culto). Successivamente un altro monaco, Bodhidharma, si recò spontaneamente al tempio ma con altri intenti: introdurre e diffondere il suo stile di combattimento, il famoso Gongfu (scritto “kungfu” è errato ma comunemente accettato come identificativo di quest’arte). Il monastero Shaolin è appunto la culla di tutte le arti marziali, proprio in virtù del fatto che fu grazie a questo tempio e all’unione dell’arte marziale con le pratiche meditative se oggi si può parlare di “arte”. Si parla di Shaolin in riferimento alla foresta (lin) del monte Shaoshi, dove questo tempio sorge (sud della Cina, nei pressi della città di Dengfeng).
La venuta di Bodhidharma sancì l’inizio di una vera e propria leggenda: da quel momento fu chiara la dualità nel ruolo di monaco buddista e monaco guerriero: seguendo il principio dello Ying e dello Yang (o Dao, se si guarda all’icona rotonda bianca e nera), uno influenzava l’altro e viceversa; per i guerrieri l’intento era quello di portare calma interiore, armonia nei movimenti e soprattutto la capacità di curarsi, nei monaci invece era quello di unire corpo e mente in una serie di movimenti finalizzati a concretizzare il principio di “corpo e mente una cosa sola”. Ma attenzione: non a tutti i monaci interessava combattere e non a tutti i guerrieri interessava meditare. Più semplicemente ai “monaci” guerrieri non importava affatto della meditazione e della calma.
Parliamoci chiaro: vi siete mai chiesti come mai dei monaci combattono? E perché oggi questi monaci vestiti d’arancione, rasati, e col sorriso e la calma di un prete, sono gli uomini più forti del mondo? In sostanza, ai monaci guerrieri interessava la meditazione e il Qi gong solo per fini fisici e di auto-guarigione (il Qi gong è la pratica meditativa dinamica per rendere il corpo duro come l’acciaio, oltre che per curarsi –vedi filmati). Sono pochi i monaci puri che abbracciarono in toto entrambe le filosofie: pratica costante ed estenuante dell’arte marziale e mente potente e totalmente connessa al corpo, resa pura dalla totale astensione all’esibizionismo e al combattimento, se non per fini unicamente protettivi, secondo appunto il codice etico Shaolin. Cosa che purtroppo, negli sport da combattimento, è assente: vedasi tutti gli spettacoli americani di incontri all’ultimo sangue che bombardano i nostri adolescenti con falsi ideali.
Alla luce di questo, è evidente che certi strumenti possano essere dati ad una persona solo attraverso un percorso parallelo di analisi di potenzialità e rischi. Cosa che oggi, in questa società di esibizionisti, si sta letteralmente perdendo. Non è raro infatti trovare sempre più atleti che abbracciano queste “arti marziali” solo per fini di sopraffazione altrui.
Gli stili di arti marziali oggi sono più di 200: partiti dal monastero Shaoin del sud della Cina, si sono sparse in tutta la Terra di mezzo per poi influenzare anche Giappone, Korea, Filippine, Malesia e territori vicini. A partire dagli anni 60 le arti marziali invasero anche l’occidente, soprattutto grazie a quello che è considerato l’ambasciatore del gongfu in occidente: Bruce Lee.
Tra gli stili giapponesi ricordiamo i più importanti: Karate, Judo, Aikido. Per quelli Koreani la Taekwondo.
Tanti stili di arti marziali
Un monaco non rimaneva presso il monastero tutta la vita: pochi ne facevano la propria dimora, portando avanti e tramandando il millenario lavoro dei loro maestri, altri invece lasciavano il monastero. Alcuni per fondare una propria scuola, altri per inseguire semplicemente tutt’altri obiettivi.
Per giustificare la presenza di così tanti stili di arti marziali cinesi, bisogna analizzare le influenze che i monaci che lasciarono il tempo subìrono e apportarono al proprio stile: proprio per questo, oggi, possiamo distinguere due macrogruppi di arti marziali cinesi: gli stili del nord e gli stili del sud (Chang quan e Nan quan rispettivamente).
Nan quan
Caratterizzati da movimenti a corto raggio, devono la loro classificazione per via della densità di popolazione dove questi stili erano utilizzati, si distinguono per colpi prevalente corti, bassi e a distanza ravvicinata, proprio perché nelle strade dove era necessario utilizzarli (per via di ladri, briganti o semplici regolamenti di conti) non vi era lo spazio necessario per evolversi in particolari calci volanti o simili. Inoltre, la praticità di questi stili permetteva un po’ a tutti di impararli, senza per forza di cose allenarsi in esercizi di allungamento estremi tutti i giorni. La Cina del sud fu quindi la culla di stili come il Baji quan (stile che sfrutta le 8 parti del corpo naturalmente più letali e potenti), il Wing chun (studiato per le donne per la sua immediatezza), lo Xing Yi e innumerevoli altri.
Chang quan
Caratterizzati da movimenti notevolmente agili, in cui la mobilità articolare era un elemento fondamentale per questi ultimi, sono stili fisicamente più duri rispetto a quelli del sud. Ed è qui che gli stili Shaolin sfoderano il loro potenziale: calci volanti, avvitamenti, gesti acrobatici, armi snodate… tutti gesti che solo spazi aperti potevano consentire.
Molti si chiederanno: ora sono confuso…sento tanto parlare di Taiji quan (erroneamente scritto Tai chi chuan), ma come fa un’arte così lenta a rientrare nel panorama delle arti marziali? Domanda più che legittima: Taiji quan rientra negli stili interni. Sono stili interni tutti gli stili che si distinguono dagli altri per un’espressione della forza interna (qi) più controllata di come dovrebbe essere invece espressa in altri stili. Più semplicemente, avrete notato che durante il combattimento o l’esecuzione di una sequenza (dao lu) di arti marziali, il praticante urla (in realtà non urla). Ecco, questa è l’espressione sonora della contrazione dell’addome che, espellendo l’aria (qi significa aria, per l’appunto), causa la cosiddetta emissione sonora. Gli stili interni seguono lo stesso principio, ma l’aria viene controllata e non totalmente espulsa. In questo modo la fatica fisica si riduce, ma si può anche ottenere un’eccellente forza esplosiva anche senza esprimere tutta la forza. Ecco perché negli stili interni i suoni –o urla- dei praticanti, chiamate fa jin, somigliano a espressioni simili a suoni come “haat, hmmm, hhhhmm”.
Armi
Gli utensili utilizzati dai contadini e dai mercanti nella Cina antica subirono inconsapevolmente un’evoluzione marziale straordinaria. Dopo il bastone lungo –il padre di tutte le armi- un altro esempio è il kama, falcetto usato dai coltivatori di riso nelle risaie, o i famosi “due bastoni uniti da catena”, chiamati Shuangjiegun (Nunchaku è invece il nome errato ma riconosciuto come identificativo di quest’arma). Strumenti che all’occorrenza si dimostrarono letali, e poi resi perfetti nel corso di centinaia di anni. Nella tradizione Shaolin ci sono più di 120 armi differenti. Oltre al bastone lungo, famose sono: la spada, il Sanjiegun (bastone a tre sezioni), il Sai (perfezionato dalla tradizione giapponese) e la frusta.
Concetti di base e dinamica del combattimento
Senza addentraci nello specifico, possiamo affermare che nell’allenamento delle arti marziali Shaolin sono le gambe il vero fulcro del gesto atletico e di conseguenza la parte del corpo ad essere sottoposta allo sforzo maggiore. Facendo un paragone, possiamo guidare l’automobile con la carrozzeria più imponente e appariscente possibile, studiata per la velocità e costruita con i materiali migliori, ma se in un percorso ad ostacoli non la dotiamo degli dovuti pneumatici, ammortizzatori, ed un motore in grado di rispondere perfettamente al cambiamento di ritmo di curve, tornanti e salite, allora possiamo lasciare la nostra cara auto parcheggiata in autorimessa per il solo piacere di guardarla. Nel combattimento/allenamento si applica lo stesso concetto: schivare un colpo, saltare un ostacolo, rendersi immuni ad un impatto su una parata, essere veloci e imprevedibili… tutti elementi che dipendono dall’agilità, cioè l’assetto dell’auto unito alla reattività di un buon motore, concetto che applicato al corpo umano si traduce in gambe agili e forti.
Le arti marziali includono tutte calci (frontali, laterali, circolari sono i principali: tutti gli altri sono varianti: girato, basso, alto, “tornado”….sono infiniti e ogni stile attribuisce il proprio nome). Per gli attacchi di mano identifichiamo: pugni, colpi di palmo e colpi stilizzati (sono quelli che emulano, a titolo d’esempio, gli animali: mano ad artiglio come la tigre, ad indice teso per lo scorpione, a mano tesa per il serpente….e anche qui, come per i calci, le varianti sono infinite).
Curiosità
Tra i più di duecento stili, uno degno di nota per i suoi movimenti bizzarri è lo stile dell’ubriaco degli otto immortali (Zui quan): emulando una persona ubriaca (che di fatto sta fingendo) si può creare l’occasione giusta per attaccare e combattere virtualmente in qualsiasi posizione.
La corretta pratica delle Arti Marziali – Vivere in un monastero
Arte è già sinonimo di “pratica infinita per il raggiungimento della perfezione”. Applicato alle Arti marziali, questo termine si traduce in allenamenti durissimi, quotidiani e talvolta mentalmente inaccettabili. A tal proposito porterò la mia personale esperienza della vita in monastero negli anni a partire dal 2006. Sono stato accettato presso il monastero Shaolin del nord della Cina nel 2006, meta di moltissimi studenti ma famosa per la brevità dei soggiorni, per via dello stile di vita a cui eravamo sottoposti. Premetto che provenivo da dieci anni di pratica costante, e questo per me era uno dei tanti viaggi necessari al completamento del programma tecnico della scuola che l’anno prima di partire fondai. Mi serviva un’esperienza diretta per offrire ai miei studenti un allenamento quanto più fedele a quello dei monaci. Ma entriamo nel vivo: la mia stanza in monastero era un cubo bianco di 4 metri quadrati, con un pezzo di legno, un sacco di riso e un asciugamano: quello era il mio letto. Sveglia alle 5, il ritardo non era giustificato e per chi non se ne convinceva vi era un bastone pronto a persuaderlo. 6 ore di allenamento al giorno, oltre ovviamente al lavoro, visto che quell’inverno c’erano 8 gradi nella mia stanza e fuori -15: risultava ovvio che per garantirci il cibo che ci veniva portato dal carretto del paese bisognava prima sgomberare la salita che portava al monastero dalla neve. Tutti i giorni e più volte, poiché altra scendeva prontamente. Allenamenti estremi: fisicamente durissimi ma certe volte al limite: il mio maestro Shi Xing Long spingeva di tutto peso sulle mie gambe stese e altri tre mi tenevano finché mi aprivo completamente. L’urlo era l’unico rimedio a portata di mano. Per chi come me andava in monastero per la prima volta, doveva essere pronto ad essere trattato meno di una matricola: non importava quanti anni avevi alle spalle, a loro non importava nulla: ti facevano vedere una mossa velocemente, e tu dovevi poi replicarla all’infinito e ripresentarla al Maestro –ovviamente sbagliata- e solo se dimostravi di vincere sulla tua mente per via della rabbia, allora ti venivano concesse più attenzioni e di conseguenza più rispetto. Eravamo una quarantina e solo io e Thomas Young, mio compagno di stanza, riuscimmo a sopravvivere senza mai saltare un giorno. I Maestri ti prendono in considerazione se dimostri loro che sei determinato, e non c’è spazio per esibizionisti e gente che vuole le cose facili. Tornai in monastero negli anni 2008, 2010, 2012 e tuttora mi reco personalmente dal mio Maestro per impararne i segreti e migliorare le mie tecniche. Ma vi giuro che il mio primo pensiero quando stavo lasciando il monastero era “io qui non ci tornerò mai più”. Non so come mai da lì a due mesi stavo già risparmiando soldi per tornarci. Non avevamo niente, vivevamo in ambienti malsani, ma eravamo felici. Una delle prove mentali più grandi fu la settimana del silenzio: resistere senza parlare per 7 giorni, con un giorno extra per ogni parola che usciva. Ce la feci in 8 giorni, e la sensazione di pace che provai a ricominciare a parlare fu qualcosa paragonabile a tornare a vedere dopo un anno di cecità. Al di là del tipo di stile che ho scelto di approfondire, e al di là della quantità di allenamento, una cosa è certa: torni in Italia e apprezzi di più ogni cosa. Senza contare la facilità con cui affronti gli sforzi, che in paragone al monastero sembrano nulla.
威雄严 Fabio Zambelli
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